LO STRESS E IL GONFIORE

 

LO STRESS E IL GONFIORE

Tutti gli organismi viventi rispondono all’azione destabilizzante dei più diversi stimoli ambientali con lo scopo principale di mantenere l’equilibrio biologico necessario alla sopravvivenza, cercando così di garantire la continuità della specie e l’uomo, in particolare, di salvaguardare la propria identità psico-fisica.
L’OMS definisce la salute mentale come “uno stato di  benessere in cui l’individuo, cosciente delle proprie  capacità, riesce  ad  affrontare  il normale stress  della vita quotidiana, ed è in grado di  dare  un  contributo alla propria comunità lavorando in maniera produttiva e  proficua ” .

 Secondo Kuhn il termine paradigma rappresenta una prospettiva teorica condivisa e riconosciuta dalla comunità degli scienziati di una determinata disciplina. Essa deve essere fondata sulle acquisizioni precedenti della disciplina stessa e indirizzare la ricerca sia in termini di individuazione e scelta dei fatti rilevanti da studiare, che di formulazione di ipotesi entro cui collocare la spiegazione del fenomeno osservato; infine il paradigma deve permettere di approntare le tecniche di ricerca empirica necessarie al riconoscimento oggettivo e alla conferma dell’evento considerato.

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La parola Stress, dal latino strictus (stretto, serrato, compresso), venne utilizzata nel XVII secolo nei paesi anglofoni con il significato di difficoltà, avversità e afflizione, per poi acquisire nel XVIII e XIX secolo il significato di forza, pressione, tensione o sforzo.

Fu W.B. Cannon a introdurre in biologia il termine stress derivandolo dall’ingegneria, in cui viene associato al termine strain (rottura per carico eccessivo), per indicare il mettere sotto tensione travi metalliche al fine di provarne l’effettiva resistenza. In medicina il termine è stato usato per la prima volta nel 1936 sulla rivista “Nature” dal fisiologo viennese H. Selye che studiava presso l’Università di Montreal le risposte degli organismi viventi alla somministrazione di sostanze nocive. A questo scienziato dobbiamo la definizione della General Adaptation Sindrome (G.A.S.), intesa come un complesso meccanismo difensivo con cui l’organismo si sforza di superare qualsiasi sollecitazione tensiogena (stressor) proveniente dall’ambiente, attraverso una risposta predefinita e aspecifica, mirata a ripristinare, al più presto, il proprio normale equilibrio operativo (omeostasi).

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La G.A.S. si articola in tre fasi; la prima, detta “fase o reazione di allarme”, scatta quando l’agente stressante, positivo o negativo, comincia ad agire sull’organismo; tale reazione comporta un cambiamento della condizione globale dell’organismo, che, non ancora adattato come avverrà nella seconda fase, ma solo attivato (arousal), avvia una primordiale risposta di sopravvivenza. L’individuo infatti percependo, più o meno consapevolmente, sotto forma di difficoltà o di potenziale pericolo, qualcosa di inaspettato, di nuovo o di insolito, chiama a raccolta tutte le proprie risorse. All’iniziale quadro di shock (effetto sorpresa), caratterizzato da caduta della temperatura corporea, ipotonia muscolare, ipotensione e tachicardia, segue infatti uno stato di contro-shock, in cui vengono mobilitati alcuni meccanismi fisiologici di difesa in grado di ribaltare le reazioni della fase di shock.

In particolare, per ripristinare l’omeostasi, interviene l’ipotalamo, controllore centrale della maggior parte delle funzioni organiche indipendenti dalla volontà con il contemporaneo avvio di tre reazioni immediate:

a) la secrezione di cortisolo, mediata dall’Asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (HPA), e quella decuplicata di adrenalina e noradrenalina, attivata attraverso la via ortosimpatica dei nervi splancnici che collegano direttamente il cervello alle ghiandole surrenali, e contrassegnata da irrequietezza e deconcentrazione mentale dovuta ad accelerazione del ritmo cerebrale (onde beta);

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b) la stimolazione simpatica di numerosi organi (vasi, muscolatura liscia, ghiandole varie ecc.) con inibizione della motilità e delle secrezioni dell’apparato digerente;

c) la produzione di betaendorfine, gli antidolorifici endogeni che consentono, tramite l’innalzamento della soglia del dolore, di resistere a forti tensioni psico-fisiche.

La seconda fase, detta di resistenza o di adattamento, dura finché si percepisce l’azione del fattore stressante; in essa l’organismo si adatta attivando un complesso programma, bio-comportamentale, sostenuto da una risposta ormonale che almeno inizialmente lo aiuta a resistere. L’asse HPA, solitamente organizzato in oscillazioni periodiche e regolari, in condizioni di stress prolungato tenderebbe ad essere iperattivato con sovrapproduzione di cortisolo e conseguente disreattività immunitaria. Gli “iper-reattivi” o “stress-dipendenti”, assuefatti alle betaendorfine prodotte, abusano spesso di  sostanze stimolanti per prolungare questa fase o di alcool per riuscire a passare quella successiva rilassante di esaurimento. Il prolungamento della seconda fase oltre le 48 ore può dimezzare le dimensioni del timo e annullare l’efficacia di milioni di linfociti B e T.

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Il cortisolo o idrocortisone, principale protagonista di questa fase, è prodotto in quantità pari a 10-20 mg/die dalle cellule della fascicolata surrenale con picco circadiano nelle prime ore del mattino; esso tende ad inibire le funzioni corporee non immediatamente indispensabili, garantendo così il massimo sostegno agli organi vitali. Una volta prodotto ed immesso in circolo, il cortisolo viene legato per circa il 75% ad una proteina specifica (CBG), mentre la quota rimanente, che ne rappresenta la parte attiva, viene legata all’albumina. La sua emivita plasmatica è di circa 60-90 minuti, il 20% è convertito in cortisone e successivamente ambedue le molecole sono inattivate a livello epatico; soltanto l’1% del cortisolo prodotto viene escreto come tale nelle urine.

Le principali funzioni dei glucocorticoidi sono quelle di:

a) stimolare la glicogeno genesi;

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b) aumentare la glicemia: sia incrementando la gluconeogenesi epatica attraverso la conversione di alanina in glucosio, sia stimolando la secrezione di glucagone che riduce l’attività dei recettori insulinici con conseguente insulino resistenza;

c) inibire la captazione di glucosio da parte delle cellule adipose con conseguente aumento della lipolisi, anche se poi l’iperinsulinemia correlata alla glicogenogenesi annulla tale effetto portando ad un aumento dei depositi di grasso;

d) favorire il catabolismo proteico: sia stimolando la conversione delle proteine in glucosio e la glicogeno sintesi, che accelerando la degradazione delle miofibrille muscolari più resistenti o di tipo II, degli arti inferiori;

e) aumentare il catabolismo dei grassi, della massa muscolare, della cute, del tessuto linfatico e del tessuto connettivo favorendo inoltre con la ridotta sintesi di collagene e di matrice ossea l’instaurarsi di osteoporosi;

f) ridurre le difese immunitarie per inibizione della fosfolipasi A2 con diminuzione della produzione di prostaglandine e di leucotrieni, fattori determinanti nel processo infiammatorio.

I principali sintomi da ipercortisolemia stigmatizzano il Morbo di Cushing con ridistribuzione del grasso corporeo, perdita di massa muscolare, ipertensione, fragilità capillare, assottigliamento della cute, difficoltà di cicatrizzazione delle ferite, osteoporosi, immunodepressione, diabete secondario e psicosi.

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La secrezione di cortisolo è fortemente condizionata dalla durata e dall’intensità dell’esercizio fisico, con picco quando il suo livello critico raggiunge circa il 60% del volume massimo di O2 consumato per minuto (VO2max); giustificando le cosiddette fratture da stress del runner.

Va ricordato infine che la risposta corticosurrenalica all’attività sportiva è ridotta dall’ingestione di cibo, mentre lo stress psicologico e il digiuno prolungato o abitudini alimentari scorrette, come saltare la prima colazione e/o mangiare molto in un unico pasto giornaliero, favoriscono l’ipercortisolismo. La terza fase, detta di esaurimento, inizia quando il “pericolo” viene percepito come ormai superato o quando l’energia da stress comincia a scarseggiare; essa ha il compito di assicurare all’organismo il necessario periodo di riposo. Di solito, se la fase precedente termina prima che tutte le risorse siano state consumate, si avverte un sensibile calo d’energia spesso associata a un profondo sollievo o piacevole torpore. Se invece, la fase di resistenza è durata per troppo tempo, possono derivarne lunghi e debilitanti periodi di esaurimento, squilibri funzionali e alterazioni strutturali conseguenti alle risposte esagerate o alle difese inefficaci; oltre alla perdita graduale della capacità di adattamento allo stressor e all’insorgenza di patologie psicosomatiche di vario tipo. All’inizio la terza fase è caratterizzata da una rapida diminuzione degli ormoni surrenalici e delle riserve energetiche. L’effetto stimolante del sistema nervoso simpatico viene sostituito da quello calmante del parasimpatico, che ripristina il normale flusso sanguigno nell’apparato digerente, nel cervello e nella cute.

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   In questa fase si manifesta l’incapacità dell’organismo ad adattarsi indefinitamente; infatti, se lo stress nocivo continua, l’organismo esaurisce le risorse per fronteggiarlo, soccombendo in maniera più o meno completa. Ciò può provocare alterazioni permanenti, che predispongono allo sviluppo di malattie psico-fisiche anche croniche.

La SGA può essere considerata un residuo archeologico di reazioni primitive necessarie alla lotta o alla fuga di fronte alle minacce esterne, per lo più di natura fisica, oggi sostituite da un tipo di impegno relazionale-psicosociale

Dott. Francesco Borghini

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